Un lavoratore chiede all’INPS l’estratto conto della propria situazione contributiva. Sulla base dei numeri forniti dall’Istituto l’interessato, qualche anno dopo, si dimette per avere la pensione. Prestazione negata in quanto non ha raggiunto il minimo dei contributi necessari. Perché? Perché i dati riportati sull’estratto non erano corretti e hanno indotto l’interessato al passo falso. Proteste, ricorsi, lite davanti ai giudici: Tribunale, poi Corte di appello. Questi giudici danno ragione all’INPS in quanto il documento rilasciato non aveva valore “certificativo”, era soltanto “dichiarativo”. Ma la Corte di Cassazione (Sent. 8604/2016) ribalta le decisioni e la ragione passa al lavoratore, che per raggiungere il diritto a pensione ha dovuto versare pesanti contributi volontari a proprio carico.
La Corte rigetta le due diverse qualificazioni dell’estratto e condanna l’INPS al risarcimento del danno in un gruzzolo pari alle buste paga perdute fra la cessazione del rapporto di lavoro e la decorrenza della pensione. Di fronte a una palese indicazione erronea come quella dell’INPS il danneggiato non deve neanche provare il dolo o la colpa dell’autore dell’illecito.
Questo perché l’Amministrazione pubblica quando dice o scrive qualcosa deve fornire informazioni corrette e attendibili sulle quali il cittadino, proprio perché derivano dal pubblico potere, fa completo affidamento. E questo affidamento costituisce uno dei fondamenti dello Stato di diritto.
Sotto questo aspetto l’estratto conto, qualunque sia la definizione che ne dà INPS, è sempre un documento che certifica una situazione, e perciò non può essere approssimativo. E se sono registrate informazioni errate, l’INPS “rompe e paga”. Anche se il documento è elettronico e quindi non ha la firma di alcun funzionario.
Fonte: consulenza.it